martedì 30 settembre 2008

Capitolo 1

Eccolo qua, pubblico la prima parte del racconto. E' la prima volta che scrivo qualcosa del genere, quindi vi prego di farmi notare errori e banalità.
E' ancora senza titolo, perciò qualunque consiglio su di esso è bene accetto.
Spero vi piaccia, mi ha fatto sudare.

1.

Early this mornin'
when you knocked upon my door
Early this mornin', ooh
when you knocked upon my door
And I said, "Hello, Satan,
I believe it's time to go."
ROBERT JOHNSON


La prima cosa che fece, di ritorno dalla festa, fu dirigersi verso il bagno. Aprì l’acqua della doccia, si spogliò ed accese il piccolo stereo che teneva sulla mensola accanto allo specchio, sopra lo spazzolino. Saggiò la temperatura dell’acqua con un piede. Era calda; si infilò in doccia.
Dal piccolo altoparlante usciva la voce roca del cantante indeciso fra il continuare gli studi, rubare l’auto al padre e fuggire o formare una band, quando la suoneria del campanello trillò.
Marco si destò dal torpore che l’acqua calda gli procurava, imprecò, indossò l’accappatoio blu e si diresse verso l’ingresso lasciando sul pavimento piastrellato una scia di gocce d’acqua. Dal bagno giungeva, cantata, la storia di un uomo chiuso in cella per non aver dato retta ai consigli materni: aveva sparato ad un uomo soltanto per vederlo morire.
Dopo l’ennesima imprecazione, Marco guardò dallo spioncino ma non vide nulla di insolito: solo la porta del vicino oltre il pianerottolo.
“Che scherzo di merda.” Pensò.
Non ritornò in bagno, ma aprì il portone e, con sorpesa, i suoi occhi si posarono non sul portone del vicino, né sul pianerottolo, ma su di uomo di mezz’età, sulla sessantina.
Indossava un pacchiano gilet di broccato veneziano verde sopra ad una camicia che, probabilmente, non aveva mai conosciuto una stiratura, tanto era stropicciata; i polsini erano chiusi non da bottoni ma da gemelli raffiguranti un grappolo d’uva nera e un sigaro, il destro, un dado ed un piede femminile, il sinistro. I pantaloni erano neri, così come le scarpe di vernice che, dovevano aver visto molti marciapiedi sotto di loro.
L’unico vezzo che lo strano individuo pareva essersi concesso era un anello d’oro bianco, portato nell’anulare destro e rappresentante un teschio.
“Buonasera.” Esordì lo straniero.
Marco non rispose, troppo sorpreso dalla vista dell’uomo, fra l’altro incredibilmente bassa.
“Dovrei dirle che è un piacere conoscerla, Marco. -La posso chiamare Marco vero?- Ma la conosco già, ed anche molto bene, quindi non lo dirò.”
Marco era sempre più sorpreso da quello stano figuro, alto come un satiro. E sentiva freddo, molto freddo: ai suoi piedi si era formata, a causa del gocciolio, una pozza d’acqua.
Lo sconosciuto si esibì in un plateale inchino e chiese nel più garbato dei modi:
“Non mi fa accomodare?”
“Lei chi è?” fu tutto ciò che Marco riuscì a dire.
“Mi conosce benissimo.”
La risposta lo sorprese ancora di più.
“No!” Ribatté.
“Ma certo che mi conosce, mi faccia entrare per cortesia, e mi offra da bere. Il mio nome è Di, si ricorda di me adesso? Le dice niente il mio nome?” I’uomo sorrise.
“Assolutamente no!” Rispose il giovane. Ma mentre pronunciava quella parole gli ritornò in mente il ritornello di una vecchia canzone, nella quale il cantante raccontava l’esperienza di aver ballato libero e senza vincoli con un certo Mr. D.
Il tono di voce di Marco mutò improvvisamente, si fece più sicuro e cordiale:
“Prego, si accomodi.”
E mentre faceva strada verso la cucina - e verso il bagno, dal quale si sentiva la storia di un’infelice che si ubriacava bevendo bourbon, scotch e birra per dimenticare le angherie quotidiane - chiese all’ospite cosa desiderasse.
“Martini, of course!” fu la risposta.
“Se chiede un Martini dev’essere un tipo a posto.” Pensò Marco, stranamente tranquillizzato dopo il nervosismo iniziale.
Fece accomodare lo strano personaggio su di una sedia e preparò due cocktail, uno per lui ed uno per l’ospite, a cui lo porse. Il signor Di ringraziò e chiese dei fiammiferi per accendere una Lucky Strike estratta da un portasigarette d’agento.
“Sa, l’odore della capocchia in combustione mi fa impazzire.” Si giustificò.
Aspirò avidamente la prima boccata, ingurgitò tutto il contenuto del bicchiere svasato ed iniziò:
“Sai caro, in molti si professano umanisti. Tutte cazzate, l’ultimo degli umanisti sono io.”
Tirò un’altra, violentissima boccata alla sigaretta e riprese:
“Io solo sono l’ultimo degli umanisti perché io solo amo l’uomo dalla punta capelli alle dita dei piedi, amo tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti. Anzi: ho una vera passione per i difetti umani.”
“Ma…” Marco cercò di introdursi nel monologo del signor Di.
“Si, mi è facile indovinare cosa vorresti dire, cercano di dirlo tutti. So di aver recitato letteralmente il monologo di quell’attore italo-americano durante la scena finale di un film d’avvocati. Ma caro mio: non sono stato io a citarlo, è lui che mi ha plagiato ripetendo, identico, il discorso che feci con lui qualche anno fa. Mi rubò le frasi e le ripetè davanti alla macchina da presa.”
Marco tacque, non sapeva che dire a quell’uomo dai capelli brizzolati che, sembrava, delirare di un delirio perfettamente lucido.
“Spero tu abbia indovinato chi sono, sai, mi avete dato un’infinità di nomi voialtri: Belial, Abaddon, Iblis, Asmodai, Benedetto Sedicesimo, Belzebù, il più generico Diavolo, Satana… Potrei continuare quasi all’infinito, ognuna delle vostre civiltà mi ha assegnato nomi diversi. Ma il mio preferito è Lucifero, questo è il mio nome.”
E rise di una risata strana, contagiosa.
Poi si accese un’altra sigaretta.

2 commenti:

sassenach ha detto...

ehi picy, davvero intrigante! mi hai incuriosita, nn vedo l'ora di saperne di più su questo marco e il misterioso personaggio...mi piace come scrivi soprattutto perchè quando descrivi mostri le scene, mi sembra quasi di vedere anke i più piccoli particolari. a quando il prossimo capitolo? :)

Giuseppe ha detto...

Fede, non sono in grado di darti consigli però sappi che mi è piaciuto, bravo!
Giuseppe/Mick87