lunedì 14 settembre 2009

Silvio invade New York.



L’originale risale al 1987 e ritrae un Robert De Niro con sigaro, Borsalino e mani giunte, torreggia su Kevin Kostner e Sean Connery. Accanto al viso dell’attore, quattro righe recitano: Al Capone / He ruled Chicago with absolute power / No one could touch him / No one could stop him.
La locandina de Gli Intoccabili (The Untouchables); film di Brian De Palma che racconta l’arresto di Al Capone, padrone assoluto di Chicago negli anni del Proibizionismo, da parte di una squadra di incorruttibili poliziotti, è riapparsa leggermente ritoccata sui muri di New York, nei quartieri di Lower East Side, Little Italy e Soho.
Non è più la faccia dell’attore a capeggiare, ma quella del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, torreggiante sì: ma su una panoramica di tetti romani. Dalle didascalie si legge: Berlusconi / He rules Italy with absolute power / No one can touch him / No one can Stop Him. Il titolo è rimasto identico all’originale, con l’aggiunta di un sottotitolo: Unimpeachable at law, gioco di parole fra Untochable e Impeachable, (l’impeachment è la procedura che il Senato Federale può intraprendere contro il Presidente Statunitense a seguito di gravi fatti o mancanze, la stessa a cui è stato sottoposto Bill Clinton dopo lo scandalo Lewinsky) .
I manifesti sono stati pensati, realizzati e autofinanziati (quattromila dollari il costo dell’opera) da un’associazione di quattro professionisti italiani residenti nella Grande Mela, che si fanno chiamare Young Meat e si definiscono i carbonari degli anni Duemila. Uno di loro: P.S., fotografo e residente a New York da 12 anni spiega così il gesto: <>.
Le stesse locandine sono apparse pochi giorni dopo anche sui muri milanesi in zona San Siro, davanti alla redazione del Sole 24 Ore e di Radio 24. La questura ha avviato degli accertamenti, potrebbero essere riconducibili alla rete dei centri sociali presenti nel capoluogo lombardo.

Federico Martignon
13/09/2009

sabato 28 febbraio 2009

Les Trois Tetons - A Pack Of Lies



Dopo mesi di assenza posto la recensione del nuovo disco dei Les Trois Tetons, mi è stata gentilmente richiesta dal cantante in persona, nonchè (perlomeno lo considero) caro amico.
Siate carini.

Una delle cose migliori da fare, di questi tempi, è rinchiudersi in casa, stappare una bottiglia di Chianti, accendersi una sigaretta e inserire nel lettore il nuovo disco dei Les Trois Tetons, A Pack Of Lies.
I Les Trois Tetons, formatisi a Genova ormai diciotto anni fa, sono una rock n’ roll band di vecchio stampo, composta da un travolgente polistrumentista: Zac, voce, chitarra e armonica; da un grande bassista: Icarus; da un batterista: Guido, che, evidentemente, conosce molto bene l’arte di pestare le pelli; da un chitarrista cresciuto a pane, Chuck Berry e blues dal nome sospettosamente simile ad una certa tipologia di liquore che, da sempre, ha supportato i musicisti di mezzo mondo on stage e non –Barbon- e da uno scintillante sassofonista –Gian-. La band ha già all’attivo tre album, tutti autoprodotti, di cui due registrati dal vivo durante le trascinanti serate a zonzo nell’entroterra genovese e, gli ultimi (Sweet Dancer datato 2005 e A Pack Of Lies) contenenti solo brani inediti, composti, suonati, registrati e mixati da loro.
Il loro sound strizza l’occhio a Tom Waits, agli Stones, a Chuck Berry, Muddy Waters e Dylan. Sono molto bravi i ragazzi a fare l’occhietto.
La prima traccia dell’album: Disappear vi fa subito capire di che pasta sono fatti i Tetons, partendo alla grande grazie al fulminante riff di chitarra e alle fighissime, azzeccatissime ritmiche del bassista.
Dicevamo Tom Waits e dicevamo bene, le influenze del cantautore di Pomona si sentono alla grande nella seconda canzone del disco: Long Tall Mama, con Zac perfettamente a suo agio nell’atmosfera funk-blues. Srotola note dalla sua armonica con la stessa facilità con cui si srotola la carta igienica, o lo Scottex, se siete più puritani. Ma se siete puritani l’ascolto di questo disco è sconsigliato, ritornatevene a Ramazzotti.
Tom Waits, certo. Ma anche e soprattutto Rolling Stones. È la band londinese eccessiva, volgare e tossica che fa da vero faro al sound dei Tetons. Scaldate un po’ i muscoli perché quando parte il riff di Spy, la terza traccia, è veramente difficile stare fermi e, se si chiudono gli occhi non è difficile immaginare di trovarsi fra la folla del Mocambo, in quell’aprile del ’77, tanta è l’energia che sprigiona il gruppo Genovese. La canzone prosegue a mille grazie agli assoli di Barbon e agli ululati del frontman.
Il ritmo incalza e l’atmosfera si scalda con il rock di Useful Servants e di Roses From The Bridge ulteriori prove che il gruppo sa dove sta di casa il rock n’ roll. The beggar drinks his soul / chasing the same old ghost, questi due versi riassumono perfettamente l’atmosfera elettrica di queste due trace.
Avete ballato, vi siete scatenati e avete sudato. Adesso date ascolto a Calvino che, nell’incipit di Se una notte d'inverno un viaggiatore vi consiglia di rilassarvi, di raccogliervi, di allontanare da voi ogni altro pensiero, di lasciare che il mondo attorno a voi sfumi nell’infinito. E di accendervi un’altra sigaretta, di quelle buone, consiglio io; perché il malinconico bluesaccio della sesta canzone –Thirteen Feet Under The Ground- merita di essere capito, compreso. Deve entrare nella vostra anima e rapirla, portandola via lungo la Strada, la Strada maledetta di Charley Patton e Robert Johnson, la stessa Strada che gli hobo del Mississippi, ultimi superstiti del romanticismo, percorrevano a bordo di carri merci trainati da locomotive a vapore, locomotive genialmente richiamate, in chiusura della traccia, dallo sferragliare delle ruote sui binari e dal fischio del vapore.
Runaway è come una fucilata in pieno petto, irrompe fuori dalle casse con violenza inaspettata, riprendendo magnificamente l’atmosfera rock di cui la prima parte del disco è intrisa, camminando fianco a fianco con Crosby, Still, Nash & Young, accompagnata da fraseggi chitarristici perfettamente azzeccati.
Surrender The Joy apre una parentesi acustica, subito richiusa dalla swingeggiante Cherry Red, nella quale l’indiscusso protagonista è il sax di Gian dosato con una cura quasi maniacale. Vengono in mente ampi saloni in cui coppie di uomini in smoking e donne elegantemente acconciate bevono champagne e fumano guardando questo complesso esibirsi sul palco, si può sentire il tintinnio delle coppe e il forte profumo delle dame. Let’s swing baby!
La penultima traccia è una versione acustica della prima: Disappear. Non sono più le chitarre a dominare, ma ancora una volta gli splendidi polmoni del sassofonista e le dita di Icarus.
La degna conclusione di un’opera così eclettica non può che essere una traccia acustica: Can’t Be Trusted. Risiedetevi pure e bevete un ultimo bicchiere alla salute di questi cinque strumentisti, gente parecchio cazzuta.
Alla vostra, Les Trois Tetons.

Federico Martignon
19 Febbraio 2009

martedì 30 settembre 2008

Capitolo 1

Eccolo qua, pubblico la prima parte del racconto. E' la prima volta che scrivo qualcosa del genere, quindi vi prego di farmi notare errori e banalità.
E' ancora senza titolo, perciò qualunque consiglio su di esso è bene accetto.
Spero vi piaccia, mi ha fatto sudare.

1.

Early this mornin'
when you knocked upon my door
Early this mornin', ooh
when you knocked upon my door
And I said, "Hello, Satan,
I believe it's time to go."
ROBERT JOHNSON


La prima cosa che fece, di ritorno dalla festa, fu dirigersi verso il bagno. Aprì l’acqua della doccia, si spogliò ed accese il piccolo stereo che teneva sulla mensola accanto allo specchio, sopra lo spazzolino. Saggiò la temperatura dell’acqua con un piede. Era calda; si infilò in doccia.
Dal piccolo altoparlante usciva la voce roca del cantante indeciso fra il continuare gli studi, rubare l’auto al padre e fuggire o formare una band, quando la suoneria del campanello trillò.
Marco si destò dal torpore che l’acqua calda gli procurava, imprecò, indossò l’accappatoio blu e si diresse verso l’ingresso lasciando sul pavimento piastrellato una scia di gocce d’acqua. Dal bagno giungeva, cantata, la storia di un uomo chiuso in cella per non aver dato retta ai consigli materni: aveva sparato ad un uomo soltanto per vederlo morire.
Dopo l’ennesima imprecazione, Marco guardò dallo spioncino ma non vide nulla di insolito: solo la porta del vicino oltre il pianerottolo.
“Che scherzo di merda.” Pensò.
Non ritornò in bagno, ma aprì il portone e, con sorpesa, i suoi occhi si posarono non sul portone del vicino, né sul pianerottolo, ma su di uomo di mezz’età, sulla sessantina.
Indossava un pacchiano gilet di broccato veneziano verde sopra ad una camicia che, probabilmente, non aveva mai conosciuto una stiratura, tanto era stropicciata; i polsini erano chiusi non da bottoni ma da gemelli raffiguranti un grappolo d’uva nera e un sigaro, il destro, un dado ed un piede femminile, il sinistro. I pantaloni erano neri, così come le scarpe di vernice che, dovevano aver visto molti marciapiedi sotto di loro.
L’unico vezzo che lo strano individuo pareva essersi concesso era un anello d’oro bianco, portato nell’anulare destro e rappresentante un teschio.
“Buonasera.” Esordì lo straniero.
Marco non rispose, troppo sorpreso dalla vista dell’uomo, fra l’altro incredibilmente bassa.
“Dovrei dirle che è un piacere conoscerla, Marco. -La posso chiamare Marco vero?- Ma la conosco già, ed anche molto bene, quindi non lo dirò.”
Marco era sempre più sorpreso da quello stano figuro, alto come un satiro. E sentiva freddo, molto freddo: ai suoi piedi si era formata, a causa del gocciolio, una pozza d’acqua.
Lo sconosciuto si esibì in un plateale inchino e chiese nel più garbato dei modi:
“Non mi fa accomodare?”
“Lei chi è?” fu tutto ciò che Marco riuscì a dire.
“Mi conosce benissimo.”
La risposta lo sorprese ancora di più.
“No!” Ribatté.
“Ma certo che mi conosce, mi faccia entrare per cortesia, e mi offra da bere. Il mio nome è Di, si ricorda di me adesso? Le dice niente il mio nome?” I’uomo sorrise.
“Assolutamente no!” Rispose il giovane. Ma mentre pronunciava quella parole gli ritornò in mente il ritornello di una vecchia canzone, nella quale il cantante raccontava l’esperienza di aver ballato libero e senza vincoli con un certo Mr. D.
Il tono di voce di Marco mutò improvvisamente, si fece più sicuro e cordiale:
“Prego, si accomodi.”
E mentre faceva strada verso la cucina - e verso il bagno, dal quale si sentiva la storia di un’infelice che si ubriacava bevendo bourbon, scotch e birra per dimenticare le angherie quotidiane - chiese all’ospite cosa desiderasse.
“Martini, of course!” fu la risposta.
“Se chiede un Martini dev’essere un tipo a posto.” Pensò Marco, stranamente tranquillizzato dopo il nervosismo iniziale.
Fece accomodare lo strano personaggio su di una sedia e preparò due cocktail, uno per lui ed uno per l’ospite, a cui lo porse. Il signor Di ringraziò e chiese dei fiammiferi per accendere una Lucky Strike estratta da un portasigarette d’agento.
“Sa, l’odore della capocchia in combustione mi fa impazzire.” Si giustificò.
Aspirò avidamente la prima boccata, ingurgitò tutto il contenuto del bicchiere svasato ed iniziò:
“Sai caro, in molti si professano umanisti. Tutte cazzate, l’ultimo degli umanisti sono io.”
Tirò un’altra, violentissima boccata alla sigaretta e riprese:
“Io solo sono l’ultimo degli umanisti perché io solo amo l’uomo dalla punta capelli alle dita dei piedi, amo tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti. Anzi: ho una vera passione per i difetti umani.”
“Ma…” Marco cercò di introdursi nel monologo del signor Di.
“Si, mi è facile indovinare cosa vorresti dire, cercano di dirlo tutti. So di aver recitato letteralmente il monologo di quell’attore italo-americano durante la scena finale di un film d’avvocati. Ma caro mio: non sono stato io a citarlo, è lui che mi ha plagiato ripetendo, identico, il discorso che feci con lui qualche anno fa. Mi rubò le frasi e le ripetè davanti alla macchina da presa.”
Marco tacque, non sapeva che dire a quell’uomo dai capelli brizzolati che, sembrava, delirare di un delirio perfettamente lucido.
“Spero tu abbia indovinato chi sono, sai, mi avete dato un’infinità di nomi voialtri: Belial, Abaddon, Iblis, Asmodai, Benedetto Sedicesimo, Belzebù, il più generico Diavolo, Satana… Potrei continuare quasi all’infinito, ognuna delle vostre civiltà mi ha assegnato nomi diversi. Ma il mio preferito è Lucifero, questo è il mio nome.”
E rise di una risata strana, contagiosa.
Poi si accese un’altra sigaretta.

venerdì 26 settembre 2008

Chi ha detto chi ha detto?

Da mesi l'aspettavo e finalmente è arrivata l'ispirazione per il tanto agognato racconto. E, come ad ogni scrittore che si rispetti è arrivata accompagnata da una Musa, non la classica Musa da luogo comune, magari bionda ed indossante un semplice velo che copre a stento le sue grazie. Dove stà scritto che una Musa deve essere una bella donna?
Ognuno ha la sua e, la mia Musa o per meglio dire il mio Muso è arrivata/o mente riascoltavo una canzone. Un vecchissimo blues di Robert Johnson datato 1937.
Ora, riascoltando Me and the Devil Blues -questo il titolo del brano- ho avuto una visione: ho visto questo nero, ex raccoglitore di cotone, alzare la testa e dirmi: "Scrivi figlio di puttana, se vuoi scrivere devi scrivere. E' giusto così".
E finalmente oggi pomeriggio ho messo nero su bianco i primi stralci di un racconto, ancora senza titolo che verrà presto, si spera, pubblicato su questo blog.



Buonanotte a tutti.

Bob Dylan - Maggie's Farm



Conoscevate il fascino evergreen del mondo a quadretti?
Sapevate che, per un inglese, il Cappelaio Matto è l'equivalente della nostrana Vispa Teresa?
Immaginavate che il sentimentalismo ed il naturalismo di Russeau sono espressi al meglio ne Le Passeggiate Solitarie?
Avreste mai pensato che John Wayne era allergico ai cavalli e Clint Eastwood ai sigari?
Bob Dylan non vuole più lavorare come bracciante in una fattoria?